Camu: lavorare a New York per le Università americane

 

Abbandonare un impiego a tempo indeterminato in Italia con possibilità di carriera può sembrare per molti una scelta poco sensata. Per molti ma non per tutti, non per Camu che, stanco di una società “marcia”, avvitata su se stessa e priva di prospettive, 5 anni fa ha lasciato l’Italia per trasferirsi a New York, dove è stato accolto a “braccia aperte” dalla Statua della Libertà. Oggi Camu lavora in una delle più grandi università di New York, dove si occupa di sviluppare applicazioni web-based per studenti, docenti, personale tecnico-amministrativo ed altre categorie d’utenza.

 

Camu, 5 anni fa hai lasciato l’Italia per andare a vivere in America. Ma quando hai capito che era arrivato il momento di mollare tutto e di andare via dall’Italia?

 

Non appena mi è arrivata la lettera di convocazione presso il consolato americano a Napoli. Scherzi a parte, quello di scappare dal Belpaese è un sentimento che ho maturato lentamente negli anni: non è accaduto da un giorno all’altro, ma pian piano mi sono reso conto che la classe dirigente alla guida di questo Paese, non ha per nulla a cuore il futuro dei giovani e l’inasprimento del sentimento individualista tra la gente negli ultimi anni (mors tua vita mea, dicevano i Romani) è stata la goccia che ha fatto traboccare il mio sentimento d’insofferenza. Non volevo che i miei figli crescessero in una società che persino il Censis in più occasioni non ha esitato a definire “marcia”. Una società avvitata su se stessa dove la gente non paga le tasse sapendo che poi i politici se le intascheranno o le useranno per i propri festini o quant’altro e dove le aziende s’inventano mille contratti per aggirare la rigidità del mercato del lavoro.

 

E’ stato facile affrontare il grande salto?

 

Abbandonare l’Italia già non è facile di suo, poi se hai vissuto per 15 anni in Toscana, tra girasoli, Chianti, pecorini di Pienza e paesaggi mozzafiato, diventa ancora più difficile. La terra di Dante mi ha ospitato durante gli anni dell’università, mi ha dato modo di crescere e formarmi e mi ha persino offerto un lavoro a tempo indeterminato. Ma tutto ciò non è bastato a trattenermi: tra i primi segnali di un Paese sull’orlo del burrone ed il mio amore verso la Nazione a stelle e strisce coltivato sin dai tempi di Dallas, non c’è voluto molto a fare le valigie e saltare a piè pari in questa nuova avventura. Gli eventi della vita hanno seguito, come sempre capita in questi casi, un loro corso ben preciso, ma se non fosse stata l’America, avevo già buttato un occhio sui Paesi del Nord Europa: guantoni e cappotto con doppia imbottitura erano già pronti nell’armadio.

 

Quindi in Italia lavoravi..

 

Non solo lavoravo a tempo inderminato, come ho scritto qui sopra, ma avevo posto e carriera assicurati: tutti quelli a cui raccontavo del mio sogno americano, come minimo chiamavano la neuro o mi consigliavano di rivolgermi ad un bravo strizzacervelli. Ma come mi ripeteva sempre un caro amico, non ci accorgiamo che se da un lato il posto fisso ci offre la tranquillità e la sicurezza di uno stipendio regolare, dall’altra rappresenta la morte della propria creatività, l’inaridimento della propria voglia di mettersi in gioco: con la mancanza di incentivi ad essere sempre competitivo, finisci presto per adagiarti sugli allori e lasciarti trasportare dalla corrente. Quelli che difendono la propria sedia con denti e unghie e che sventolano le modifiche all’articolo 18 come uno spauracchio ad ogni occasione, non si rendono conto dei risvolti della medaglia. Le aziende finiscono per aver paura di mettersi sul groppone dei pesi morti e così s’inventano (non a torto) le varie forme di collaborazione per non assumerti mai. Un mercato più flessibile, specialmente in periodi di crisi, è una necessità per contrastare la spirale della disoccupazione.

 

 

Perché hai scelto l’America?

 

Era una notte buia e tempestosa del secolo scorso, la settimana di Natale era appena iniziata ed io studiavo come un forsennato per superare un esame universitario. Da poco avevo preso a frequentare la nuova vicina di casa, una simpatica americana piena di gioia di vivere. Quella sera avevo deciso di attingere a tutto il mio coraggio e di dichiararmi: il timore di essere respinto mi faceva vacillare ad ognuno dei 5 passi che separavano la sua porta d’ingresso dalla mia, sul pianerottolo. Gli altri coinquilini erano già tornati ai rispettivi paeselli in giro per l’Italia, così ci concedemmo una bella cena a lume di candela. Con il cuore a mille, riuscii a stento a spiccicare una manciata di parole, ma non fu necessario proseguire. Il suo bacio fu più chiaro di mille parole. Da quel momento l’America diventò il mio obiettivo.

 

Un dolcissimo obiettivo direi… che ti ha portato dove?

 

Come per tanti emigranti con la valigia di cartone, la Statua della Libertà mi ha accolto a braccia aperte, mentre il mio aereo da Francoforte atterrava a New York. Da allora ho messo radici nel grande stato dell’Impero, anche se un giorno mi piacerebbe spostarmi più verso il centro o magari dall’altra parte del continente, sulla costa occidentale e camminare per le strade di San Francisco. Le mie conoscenze nel campo dell’Information Technology mi consentono di essere abbastanza flessibile sul tipo di lavoro che potrei fare, anche se con il tempo mi sono specializzato nell’ambito dello sviluppo web. Continuando una specie di tradizione di famiglia e personale, sono stato assunto da una delle più grandi università di New York, dove mi occupo di sviluppare applicazioni web-based per studenti, docenti, personale tecnico-amministrativo ed altre categorie d’utenza.

 

Durante questi anni di permanenza, cosa ti è mancato maggiormente dell’Italia e a cosa invece non hai mai pensato?

 

Come spesso racconto sul mio blog, il cibo è sicuramente una delle cose a cui bisogna abituarsi qui in America. Per fortuna quella vicina di casa americana, nel frattempo diventata mia moglie, cerca di conservare una dieta mediterranea in famiglia ed in tavola non mancano mai verdure (dalle cime di rapa alle zucche), succhi di frutta e biscotti fatti in casa. Il sapore, sfortunatamente, non si riesce a replicare: come dicono vari connazionali residenti da queste parti, sono l’aria e la terra a fare la differenza. La produzione industriale non può d’altro canto competere con la qualità e la genuinità di un prodotto fatto dalla piccola azienda o dal vicino di casa. Noi cerchiamo di correre “ai ripari” producendo quanto più possibile per conto nostro, dal vino allo yogurt, dalle zucchine nell’orto alle salsicce. Dell’Italia, invece, non mi manca la gente comune, non mi manca l’esasperato indivualismo e la mancanza di coesione sociale: mors tua, vita mea, è un motto che non ho mai sposato e che mi ha spinto a fare le valigie.

 

Ci racconti qualche aneddoto divertente che ti è accaduto durante la tua permanenza a New York?

 

Più che divertente, l’aneddoto che posso raccontare ha dell’incredibile. Un giorno chiacchieravo con un collega qui al lavoro, quando ad un certo punto la discussione casca sull’Italia e sulle mie radici. Il collega allora mi dice di volermi presentare una signora italiana che lavora in un altro edificio dell’università. Ci rechiamo nel suo ufficio ed iniziamo a chiacchierare in italiano. Il suo accento mi sembra quanto mai familiare e così le chiedo di dov’è originaria. Scopro così che è nata nello stesso paesello di 700 abitanti sperduto tra i monti da cui viene la famiglia di mia moglie. Per la serie… il mondo è proprio piccolo!

 

 

Al vostro arrivo in America, vi siete trovati a vivere delle situazioni in cui avete rimpianto la decisione di essere andati via dall’Italia?

 

Un’altra cosa che ci manca dell’Italia, ad essere sincero, sono gli amici. Lì avevamo un gruppo ben affiatato, abbiamo passato bellissimi ed indimenticabili momenti insieme ed ogni volta che guardiamo le foto di quel periodo, ci assale un po’ di malinconia. Qui le cose sono diverse, la vita sociale è in genere più limitata e con figli e lavoro, è sempre difficile trovare un ritaglio di tempo per stare in compagnia. Non credo rimpiangerò mai l’essere andato via dall’Italia, ma la separazione dai nostri amici è stata dura da digerire. Per fortuna Skype aiuta a rimarginare questa ferita.

 

Con che spirito avete affrontato i primi momenti?

 

Con l’entusiasmo di aver voltato pagina e di esserci lasciati alle spalle momenti difficili.

 

Quali sono state le prime cose che hai fatto?

 

Già prima di partire, avevo iniziato ad organizzare una serie di colloqui di lavoro, alcuni anche fatti per telefono, in modo da preparare il terrano all’arrivo. Ricordo che le prime due settimane furono un febbrile via vai in giro per New York e New Jersey a proporre la mia candidatura per i vari posti disponibili. Presi la patente in fretta, per avere l’indipendenza di poter guidare per conto mio e non dovermi far scarrozzare dalla moglie. Guidare da solo in una nazione sconosciuta, abituarmi ai cartelli stradali diversi ed adattarmi allo stile di guida più pacifico e rilassato, non è stato facile, per me che provenivo dalla grande città italiana dove l’incidente all’incrocio era una normalità, ogni volta che andavo al lavoro. Beppe Severgnini, in uno dei suoi libri dedicati agli italiani all’estero, descrive l’incedere delle auto sulla strada come persone su un lungo tapis roulant, ed è proprio vero.

 

Come vi siete preparati alla partenza? E dal momento in cui era solo un’idea al momento in cui siete saliti sull’aereo, quanto tempo è passato?

 

Tutto è iniziato qualche settimana dopo il nostro matrimonio e la preparazione è durata circa tre anni. Sebbene possa sembrare un tempo lunghissimo, non posso lamentarmi: come sposo di una cittadina americana, ho avuto accesso alla corsia preferenziale, mentre so di gente che aspetta dieci o quindici anni per avere il permesso di soggiorno. Le pratiche burocratiche richiedono più o meno nove mesi e culminano con la visita al consolato americano di Napoli, dove si viene intervistati da una funzionaria governativa, prima di ricevere il timbro “magico” sul passaporto.

 

Ci daresti un’idea del costo della vita in America per chi decide di trasferirsi ?

 

Chi viene dall’Europa è sicuramente avvantaggiato. I risparmi in euro magicamente si “gonfiano” quando li si converte in dollari. Io mi sentivo stranamente ricco quando arrivai, grazie ad un cambio intorno a 1.40 dollari per ogni euro. Soprattutto quando vedo che al supermercato spendo più o meno le stesse cifre che spendevo in Italia (1 dollaro per un pacco di pasta di marca, 2 dollari per una pagnotta di pane fresco, 1 dollaro per 4 litri d’acqua e via dicendo) ed alla pompa di benzina pago la verde 1 dollaro al litro. Il costo della vita, in altre parole, è mediamente più economico, per i generi di consumo tradizionali. 

 

Le tasse, dal loro canto, sono più o meno le stesse: alla fine dell’anno pago più o meno il 40% tra IRPEF, ICI, INPS e sanità. Con l’enorme differenza che qui il federalismo è in atto già da decenni e la maggior parte dei miei contributi va al governo locale (comune in primis) che li rispende direttamente sul territorio: scuole, parchi, strade e via dicendo. Gli insegnanti, giusto per fare un esempio, sono dipendenti del comune, non del Ministero. Sembra un piccolo dettaglio, ma sapere che i miei soldi vengono spesi in questo modo, mi offre maggior potere nel decidere quale comune e quale scuola voglio per i miei figli e rappresenta uno stimolo per i dirigenti scolastici a fare meglio.

 

 

Lavori in una delle più grandi università di New York, quindi ti sarai fatto un concetto del sistema universitario americano. Che differenze ci sono rispetto a quello italiano?

Per farti comprendere, ti racconterò la mia esperienza. Dopo la laurea cominciai a lavorare nel privato, ma dentro la mia testa c’era sempre la voglia di tornare nell’ambito accademico. Così decisi di tentare un concorso pubblico universitario, che vinsi con mio grande stupore, visti i circa 200 candidati presenti alla selezione. Il mio entusiasmo dei primi mesi, cedette presto il posto alla delusione del vedere le cose da “dietro le quinte”. Fu durante quel periodo che ebbi modo di toccare con mano lo stato disarmante degli ambienti accademici italiani. Gli esempi potrebbero sprecarsi, ma per farti capire come l’eccellenza dei nostri ragazzi è continuamente calpestata (spingendoli a cercare più soddisfazione all’estero), vorrei citarti il caso di Marchiori, il ricercatore dell’università di Padova, che a Febbraio aveva lanciato Volunia, un nuovo motore di ricerca che la stampa aveva addirittura battezzato "anti google". Com’è finita quella vicenda se lo ricordano in pochi: con una lettera amarissima dello stesso Marchiori, in cui annunciava l’uscita dal progetto per insanabili divergenze con l’ateneo ed i suoi… professoroni. Questo la dice lunga su come vanno le cose, ancora oggi, in Italia. In America, manco a dirlo, è tutto il contrario: i fondi per la ricerca scorrono come fiumi in piena e la meritocrazia fa emergere l’eccellenza ovunque. Non a caso il papà di Facebook è uno studente universitario americano. Certo, anche qui abbiamo i nostri problemi, non è tutto rose e fiori, ma alla base trovi sempre la cooperazione, che in Italia è rimpiazzata dalla competizione e dalle poltrone.

 

Tre motivi per cui secondo te è conveniente trasferirsi in America e tre motivi per cui è assolutamente sconveniente:

 

Io le chiamo le tre P dell’America: poste, pubblica amministrazione, pubblica istruzione. Il sistema postale è efficiente e consente uno spostamento di merci e documenti in maniera economica e sicura. Qui i bollettini postali non esistono, le bollette si pagano mandando un assegno via posta prioritaria, direttamente alla società che eroga il servizio (se non hai l’addebito diretto sul conto). Io ho mandato assegni anche da mille dollari senza pensarci due volte. Analogo discorso per la pubblica amministrazione: il consiglio comunale del mio paesino ha 4 membri più il sindaco. Nulla a che fare con le varie giunte stratificate italiane, che poi spendono i soldi dei contribuenti pubblici in festini romani o greci.

 

La scuola, infine, offre molte più occasioni di socializzazione, con varie attività sportive in cui i ragazzi sono coinvolti. Dove imparano a fare gioco di squadra e a seguire le regole.

 

La sconvenienza, al contrario, penso dipenda dalle persone: conosco gente che non ha mai mangiato roba americana in trent’anni di permanenza sul suolo americano, e che si fa anche 30 chilometri alla settimana per andar a comprare il vero pane italiano. Oppure altri che non tollerano l’atteggiamento estroverso e spontaneo degli americani (e delle americane!), rimpiangendo gli ambienti morigerati e riservati tipici dei piccoli paesini italiani. Personalmente non ho ancora trovato alcun disagio che sia da considerarsi “assolutamente sconveniente”.

 

Ci sono possibilità lavorative? In quale campo maggiormente?

 

Come gli economisti “che hanno studiato” ci dicono continuamente (Pietro Ichino in testa), la differenza sostanziale tra il mercato del lavoro italiano ed europeo in genere da un lato e quello americano dall’altro è il livello di ingessatura. Il famoso posto fisso, sogno di tanti giovani laureati del Belpaese, non è il vero obiettivo per cui lavoratori e sindacati dovrebbero battersi. Perché in fin dei conti rappresenta un modo per proteggere gli interessi della generazione attualmente in carica, riducendo opportunità e voglia imprenditoriale delle nuove leve. Un’azienda che sa di doversi tenere sul groppone un dipendente scansafatiche, ci penserà non una, non due, ma dieci volte prima di assumerlo a tempo indeterminato. Un’azienda che ha vincoli minori, al contrario, non si farà scrupoli ad assumere (e tenere!) personale e quelli più meritevoli emergeranno in maniera spontanea, come effetto di una selezione naturale. Ecco, in America si trova subito lavoro perché le aziende, paradossalmente, non hanno mani e piedi legati da sindacati e burocrazia.

 

Per concludere, vivere in America ti ha cambiato?

 

Mi ha dato la voglia di partecipare attivamente nella comunità in cui vivo e di contribuire attivamente con opere di volontariato. Perché anche la signorina alla cassa che ti chiede come va oggi la giornata (sebbene lo faccia “per contratto” a volte) può cambiarti l’umore.

 

 

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A cura di Nicole Cascione