Magritte e le ombre di un giorno spaventoso

 

Cronaca di un mattino inquietante nella vita di un genio e delle motivazioni personali che sono all’origine di uno dei capolavori dell’arte di ogni tempo 

 

La coppia che ha affittato il minuscolo appartamento che affaccia sul giardino fa di tutto per camuffare la sua provenienza forestiera. Dovreste vederli: camicia candida sotto completo nero e cravattino sottile intorno al collo gonfio da colombo selvatico lui (i capelli, grigi in fronte e piuttosto radi, sono rivolti elegantemente all’indietro quasi si raccogliessero in un corto codino); forme morbide lei, sciolte, viso curato di bambina cresciuta in fretta, e gli occhi due bottoncini di giada turbati da un’allarmante sensazione di serietà.

 

Sono qui già da una settimana e abitano la casa e il giardino fiorito, dove nei giorni di sole hanno l’abitudine di far colazione. Sono soli ma sembra abbiano intorno tutta una sontuosa corte di ombre, per il modo elegante in cui siedono al tavolo di ferro, per la maniera eccentrica con cui si rivolgono gesti e moine, cadenzando sorrisi di circostanza per un pubblico di spettri segreti. Soprattutto lui, Monsieur René Magritte, che nell’arrivare ha preteso che portassero giù dal camion il suo vastissimo repertorio di tele e strambi cavalletti, per non parlare delle inquietanti spatole simili a lance e a lunghi spadini, o delle tavolozze, oblunghe, deformi, irregolari – alcune delle forme più impensate, in tutto uguali a quelle dei suoi dipinti.

 

 

Passano la maggior parte del tempo a chiacchierare e a guardarsi negli occhi. Devono essere molto innamorati. Poi lui abbandona la moglie per recarsi di là, fumando e inseguendo chissà quali fumosi pensieri. Riservati, discreti, intrattengono rapporti cordiali col vicinato, ma non sono qui per godere della bella campagna, né per prendersi una vacanza in terra di Francia: sono stati gli amici artisti a richiamarli, Paul Elouard, André Breton, l’iperattivo Salvador Dalí, sono stati loro stessi a scovare il luogo e la tenuta, nel tentativo d’avvicinare il maestro a Parigi, che da qui dista soltanto poche ore di treno. Questo ritiro rappresenta un tollerabile compromesso: Georgette non avrebbe mai accettato di abitare in albergo, né il clima asfittico della capitale avrebbe giovato a un uomo bisognoso d’aria come il marito. La natura, i fiori, le suggestioni del cielo e degli uccelli canterini sono quanto da mesi stavano cercando, e i due sembrano felici della scelta compiuta.

 

Tuttavia quest’oggi lui è disposto ad affrontarlo un viaggio: scenderà alla stazione parigina di Saint-Lazare, e da lì in taxi si farà condurre fino a Pigalle, alla cui base si trova la ripida rue de la Rochefoucauld, il budello urbano che taglia una stretta traiettoria di bâtiment borghesi. E’ al 14, dove sorge l’attuale Musée Moreau, che René ha appuntamento con tutti gli altri. Georgette ha deciso di non seguirlo, rimarrà a casa, ad aspettarlo, e quando lui sarà di ritorno ceneranno insieme sotto la prima luna di marzo, che all’alba s’annunciava già piena come un’arancia matura.

 

Ed eccolo, nel silenzioso rantolare degli scompartimenti, l’artista intimidito che alle prime luci ha lasciato le quiete stanze di Perreux-sur-Marne, l’uomo affezionato che ha baciato la sua donna sotto un cielo ancora pieno di stelle, per correre finalmente a Parigi, al pari di un bambino impaziente, lui così straniero, così distaccato, così terribilmente solo e impreparato, così estraneo alla grandeur leggendaria della città, e di quello che da sempre essa rappresenta, e così rapito ora dalle sue seduzioni, così atterrito quasi, mentre il tassista lo deposita al luogo convenuto, dopo aver traversato una place de la Trinité deserta, alla ricerca del palazzo puntigliosamente descritto da Breton, quel museo magnifico, raffigurato come tempio, sacrario, una cattedrale abitata dal genio. E’ più semplicemente una costruzione austera quella che Magritte trova al suo arrivo: la dimora del pittore simbolista Gustave Moreau, quell’uomo tanto sinistramente assente dalla scena mondana parigina, in parte simile a lui per carattere e per diffidenza, schivo fino al midollo (pare se ne sia rimasto per tutta la vita ad abitare con la vecchia madre) e sul cui destino sono gravati, pesanti e gelidi quanto chicchi di grandine, i lutti insanabili di un’intera famiglia.

 

 

Magritte sa di essere in anticipo sull’orario prefissato ma non se ne preoccupa, spinge davanti a sé il grosso batacchio di bronzo e attende di essere accolto dal giovane custode venuto ad aprirgli. Dietro di lui visita il pensoso appartamento del primo piano, la buia libreria con reperti greco-romani e la collezione dei libri dalle preziose rilegature, la linda cucina dalle maioliche multicolori, il corridoio deserto, le camere da letto, senza stupirsi di niente nemmeno quando il suo accompagnatore lo fa salire di sopra, attraverso l’avvolgente scala a chiocciola, precedendolo in quel regno superno, demonico, costellato di tele di differente formato: feroci Messaline in atto di condannarti, vendicative Salomé sul punto di decapitarti, sanguinarie sirene dominatrici degli oceani e uomini nudi, senza speranza, inermi, affranti, disarmati, Cristi senza più vita circondati da criminali e ladri con le membra scorticate. Ma qualcosa lo spinge a ritornare in fretta sui suoi passi. Ha riconosciuto, al centro del petto, quel principio doloroso fin troppo simile al rimpianto, alla nostalgia, alla risacca dello struggimento per le cose perdute, un sentimento carico di amorosa inquietudine che lo costringe a fuggire, a tornare di sotto, a correre giù in strada prima che lo raggiungano gli amici. Il malessere monta e Magritte non sa più come contenerlo.

 

Nel dramma dell’altro, del chiacchierato Moreau, una tragedia sua, tutta personale, s’è di colpo ripresentata alla memoria, e il lampo del passato ha brutalmente squarciato la tenebra del mattino. In quell’anfratto di atrocità sublime il cauto René ha rivisto ogni cosa: sua madre annegata, povera donna, con le labbra inviolate nascoste dalla veste rivoltata sul viso, a nasconderle lo sguardo duro, deluso, disperato, forse a coprirgliene in eterno l’anima. Depressione: pare sia stato questo a spingerla fino a quel canale, a costringerla a riempirsi le tasche di sassi pesanti, a cercare la fenditura più prossima e scivolosa in cui la melma fangosa cedeva al vuoto dell’abisso. E lui, poco più che bambino tra due fratellini innocenti, a sentirne lo strazio del respiro soffocato, a contarne i battiti definitivi prima della morte, a riportarne il computo delle responsabilità tradite. Tutto a un tratto la colpa sembra divorarlo. Magritte se ne difende, ma le forze non bastano. Ha riattraversato la piazza, correndo fino alla nera schiena dell’Opéra. La giornata s’è guastata, al freddo si sono aggiunti fastidiosi aghi di pioggia, che penetrano la pelle come trafitture di gelo. Il pittore entra nel primo caffè aperto, e siede al tavolo più interno domandando al cameriere un foglio di carta e una matita. Assecondando le lamentele delle imposte guaenti abbozza lo schizzo di quella che sarà la sua più celebre opera. Due amanti, lui un poco più alto, in un interno all’apparenza domestico che si carica però di nubi scure, coi volti cancellati dalla copertura di un fazzoletto – o di un lenzuolo –, e che accostano le labbra in un bacio di enigmatica incertezza.

 

 

Forse è il fantasma della madre trapassata, forse la sua ombra punitiva che non ha smesso un giorno di perseguitarlo, a spogliare questi amanti dannati di qualunque febbre, di qualunque carica di carnalità e passione, perché dell’amore, di quelle che dell’amore sono le imperscrutabili leggi, quest’uomo e questa donna cui l’artista impresta il fuoco ardente dei suoi stessi tormenti non sembrano possedere più alcuna consapevolezza. E’ una deposizione il loro amplesso, una vertiginosa caduta, una discesa verticale verso le ragioni di un’anima che continua a chiedere alla metamorfosi dell’arte il miracolo divino di una guarigione impossibile.

 

Magritte non si ferma, non si rassegna, continua a tracciare i contorni che replicherà poi con fedeltà ossessiva sulla tela, ignorando le richieste ingenue del cameriere, lo scorrere delle ore, la foga degli attimi in rivolta, la ressa dei clienti intorno agli altri tavoli, l’appuntamento mancato con gli amici surrealisti, il mezzogiorno che bussa ai vetri del bistrot. Poi, ripiegato con imbarazzo il foglio in fondo ai calzoni, e riconsegnata scrupolosamente la matita al ragazzo che attende, ingolla il suo caffè per avventurarsi nell’acquazzone. Senza ombrello, senza bombetta, con gli occhi rossi dal pianto risale in direzione della piazza vuota, corre più a nord fino alla stazione di Saint-Lazare, abbandona infine Parigi deciso a non farvi mai più ritorno.

 

Luigi La Rosa