Parigi in uno scatto fotografico

 

La Parigi che più amiamo l’abbiamo conosciuta tramite le opere dei grandi artisti del passato. Una città secolare, città d’impressioni e di epifanie: il pennello ha saputo renderle grazia, imperio, tragicità. Ma è pure la città del romanzo per eccellenza, una città fatta di parole: da Balzac a Proust, a Zola, a Maupassant, a Perec, gli scrittori ne hanno evocato l’anima, raccolto l’essenza, indagato la complessità.

 

Tuttavia Walter Benjamin ci disarma con un’affermazione che, in parte, non possiamo non sentire impregnata di una sua incontestabile verità: “Non chi sconosce l’alfabeto ma la fotografia è da definirsi realmente analfabeta”. Aggiungerei, tornando a Parigi, non chi non l’ha visitata e vissuta davvero può dire di non conoscerla, ma chi non l’ha visualizzata, ammirata, interiorizzata attraverso la sapienza contemporanea dei suoi maestri fotografi, specialmente Nadar, Atget e Doisneau, solo per citarne alcuni tra i maggiori.

 

E’ proprio di Felix Tournachon, in arte Nadar, la definizione da cui dovremmo ripartire per cercare di mettere a fuoco la questione: “La fotografia è una scoperta meravigliosa, una scienza che occupa le intelligenze più elevate, un’arte che coinvolge gli spiriti più alti, e di cui l’applicazione è alla portata dell’ultimo degli imbecilli.” E se da un lato intelletti notevoli come quello del fisico François-Arago profondono tutto il loro impegno per perfezionare l’uso del dagherrotipo, non mancano detrattori altrettanto celebri come Charles Baudelaire, Barbey d’Aurevilly e Alphonse de Lamartine, uomini che finiscono poi per cedere alle stregonerie della nuova arte, del suo linguaggio misterioso, posando in scatti che sono entrati di diritto nella storia del pensiero e dell’estetica universali.

 

Tutto ciò ha del prodigioso, e il prodigio ha un epicentro: il 113 di rue Saint-Lazare, non lontano dall’omonima stazione. Seguitemi, non lasciatevi confondere dalla ressa che anima il quartiere, né dal traffico delle carrozze che fino a tarda notte spezza il silenzio. Quell’uomo che vedete sporgersi faticosamente tra gli enormi cavalletti dello studio è proprio lui, Nadar, avventuriero, patriota, artista amico degli artisti, fonte d’ispirazione per i romanzieri del suo tempo.

 

 

Da giorni sta cercando di realizzare il più difficile dei suoi esperimenti, ed eccolo mentre a braccia scoperte – ha ricacciato le maniche fin sui gomiti e inforcato gli occhialetti che gl’infondono quell’aria sottilmente sinistra – cerca di cospargere le lunghe lastre di vetro col Collodion, l’impasto di alcol ed etere con cui questo mago delle immagini ha promesso al mondo le sue meraviglie.

 

Non è affatto un’impresa facile: l’untuosa sostanza impregna la punta delle dita, puzza come una mistura d’inferno e provoca irritazione agli occhi, nausea e capogiri. Ma Nadar persiste, ha nello sguardo l’audacia degli innovatori, pure se molte delle sue invenzioni non trovano ancora pubblico, non fanno parlare cronache e gazzette e a un simile coraggio d’intelletto viene restituito, fin troppo spesso, solo il pallido alloro dell’imbarazzo e dell’incomprensione.

 

Il fotografo non si scoraggia: non lo frena né la malferma salute della madre Thérèse, né l’astio e la rivalità segreta del fratello Adrien: Nadar ha deciso che il suo “Panthéon” d’istantanee conterrà, uno dopo l’altro, i ritratti di tutti gli uomini e tutte le donne che hanno reso grande il secolo. Victor Hugo, Charles Baudelaire, Théophile Gautier, George Sand, Frédéric Chopin, Sarah Bernhardt e parecchi ancora, e quando le difficoltà economiche lo obbligheranno ad abbandonare il costoso progetto, il suo animo combattivo non demorderà, pronto a lanciarsi in nuove sfide artistiche per imporre i frutti della sua mai esausta creatività.

 

Il luogo che vi esorto a visitare non è tanto lo studiolo di Saint-Lazare quanto l’atelier al 35 di boulevard des Capucines, splendente al cielo parigino con le lucide vetrate ingabbiate dalla fitta griglia di ferro, interamente dipinta di rosso. Raggiungerlo è abbastanza facile, da Grands Boulevards è una piacevolissima passeggiata. Un tempo, sull’imponente facciata risalita dalle energie perenni della capitale Antoine Lumière, padre dei celebri fratelli, aveva fissato la sua insegna luminosa: ATELIER NADAR.

 

 

L’iscrizione lampeggiante rischiarava la notte col suo lume perlaceo, e il balconcino al quale era solito affacciarsi il nuovo affittuario dello stabile: un Nadar ombroso, tormentato, uno dei personaggi più creativi e fertili degli ultimi trecento anni, un genio puro, che aveva suggerito soggetti di romanzi e sostenuto rivolte pure all’estero, come quella per riscattare la Polonia dallo strapotere osceno dell’invasore prussiano.

 

Questo è il luogo che visiteranno le massime celebrità dell’Ottocento, il locale che finirà per passare alla storia quando nell’aprile del 1874 Nadar, oberato dai debiti e dal timore di non farcela, accetterà d’andar via cedendo il sontuoso reame a Claude Monet e allo stuolo dei nuovi maestri impressionisti. Dietro la corrente pittorica che farà di questi innovatori la più discussa avanguardia del diciannovesimo secolo un semplice, spontaneo, nudo e disarmante atto di generosità. Che come tanti altri nella vita del Tournachon verrà ripagato dal ricambio di una tiepida stima.

Diversa la visuale da cui ci osserva Eugène Atget, forse il solo fotografo parigino testimone degli ultimi fasti della Belle Époque. Inseguiamolo fino al vicolo elegante in cui vive, con la moglie Valentine, in una mansarda di dimensioni microscopiche annidata tra i tetti di rue Campagne-Première. In questa stessa via Arthur Rimbaud trascorrerà più d’una delle sue notti spaventose. Qui Van Gogh possiederà per qualche giorno uno studio minuscolo, inabitabile. E Man Ray e la bella Kiki, la più chiacchierata modella di Montparnasse, consumeranno il loro amore trasgressivo e conflittuale in una casa che ostenta sul suo prospetto terrosi oblò, sormontati da seducenti visi di donna. Se possiamo allungare lo sguardo sulla Parigi fin de siècle, sui suoi origami di foglie morte, sulle sue fangose pozzanghere, sui suoi cirri violacei, sui portoni chiusi di vecchi casamenti in disuso, se la città di un tempo ci risucchia nel vortice affannoso dei suoi spettri irripetibili è soltanto grazie agli scatti fotografici di questo genuino poeta della strada, morto in miseria dopo aver cantato romanticamente la pienezza e lo struggimento di un’era in declino.

 

 

Quello che Atget ci racconta è un mondo vibrante, sul limitare della crisi: per questo quel che manca lo immaginiamo, laddove intuiamo un vuoto non manchiamo di colmarlo, e la vita che questo abile artigiano del reale non è riuscito a fissare all’interno dell’obiettivo sembra risplendere di un’intensità ancora maggiore, ancora fresca, come l’impronta che lasciano le ombre quando si abbassano, o le delicate fragranze del vento, le imprendibili movenze delle stagioni, gli inganni di cui è intessuta l’algebra del vivere e del morire. Ultimo e a noi più vicino interprete della sensibilità novecentesca l’acclamato Robert Doisneau, corrispondente di guerra, umanista, testimone dello spirito intraducibile della banlieue parisienne, ma soprattutto evocatore della tenerezza, della pietà, del sentimento, della semplice, elementare, irraccontabile epica del quotidiano.

 

Potrei chiedervi di seguirmi fino all’Hôtel de Ville, davanti al quale due amanti giovani, ardenti, divenuti immortali nell’attimo in cui le loro labbra si sfiorano a sancire un addio si baciano nel brano fotografico più celebre di tutti i tempi. Ma non è questa la vicenda che stiamo inseguendo, né il luogo nel quale vorrei condurvi, invitandovi a raggiungermi nell’affollata rue Mouffetard che Doisneau ci restituisce in una delle sue foto più intense.

 

 

L’accordéoniste. E’ di lui che vorrei parlarvi. Di come il fotografo lo rappresenta all’interno della sua opera. Della luce che gli fa scivolare sul corpo, sulla fronte, sul viso spigoloso, segnato da forse troppe guerre e smagrito da troppo poco amore. Ripassando più volte al giorno per l’affollata piazzetta intorno alla quale si dispongono ambulanti, pittori e giocolieri, ho sempre la strana impressione di tornarlo a vedere, di riascoltare quelle note sfiatate. Dietro di lui una piccola folla di spettri si muove ancora, sussurrando, smaniando, e il giovane scrivano da marciapiede compila la sua pagina cercando di fermare i pensieri.

 

E’ questa la Parigi più vera, la città delle sensazioni, la città dei brividi che i grandi fotografi hanno saputo narrare con la maestria del loro impeto. Del loro intuito. Del loro dolore straordinario. Cercatela in altri scatti, immergetevi nella filigrana abbondante delle sue infinite rappresentazioni. Sentitela, ma con la pelle. Le appartengono poesia, fasto, dolcezze senza tempo.

 

 

Luigi La Rosa

 

 

ULTIMI ARTICOLI

CATEGORIE

SEGUICI SU FACEBOOK

ISCRIVITI ALLE NEWSLETTER

SEGUICI ANCHE SU