Andrea Ciacchi: il sistema universitario brasiliano

 

 

Continuiamo il nostro viaggio attraverso i sistemi scolastici e universitari nel mondo. Oggi parliamo con Andrea Ciacchi, professore di antropologia all’Università Federale Foz do Iguacu e con lui esploriamo il sistema universitario brasiliano. Avevamo già intervistato Andrea per parlare della sua esperienza, in generale, di emigrato in Brasile: oggi entriamo nello specifico della sua professione di professore per conoscere un po’ meglio l’università di un paese, il Brasile, che tanto sta cambiando sia economicamente sia socialmente. E per capire quanto contribuiscano gli investimenti nella cultura per lo sviluppo, anche economico, di un paese. E grazie ad Andrea, ne emerge un quadro molto realistico, senza eccessivi entusiasmi esterofili, su un sistema complesso, sui punti di forza e su quelli più critici.

 

Ciao Andrea, ci racconti un po’ qual è stato il tuo percorso, dal punto di vista pratico e burocratico, per iniziare a lavorare in un’università brasiliana?

 

Il percorso è nato un po’ prima di diventare un progetto di vita. Nel 1984, appena laureato in Lettere, alla Sapienza, indirizzo demo-etno-antropologico, ma con una laurea interdisciplinare in Letteratura Brasiliana, di fronte al deserto “post-laurea” italiano di quei tempi (in tutto il mondo esistevano master e dottorati, meno che in Italia), decisi, appunto, di fare un Master in Brasile, per un paio d’anni. Poi, tornato in Italia, e dopo aver finito un dottorato di ricerca a Bologna, di fronte al deserto occupazionale italiano, nel 1994 ho preso al volo un bando per borse di studio in Brasile (nella stessa università dove avevo fatto il Master) e sono venuto qui. Per sempre. Nel 1997 ho vinto un concorso per professore visitante e, nel 1999, un concorso per professore titolare. Ed eccomi qui.

 

Parlaci del sistema universitario brasiliano

 

È diversissimo, sotto quasi tutti i punti di vista. Migliore, per tanti versi, anche se qualcosa del sistema italiano la salverei. Qui, da sempre, c’è il “numero chiuso”. Sembra un assurdo, ma evita che poi esistano schiere di laureati senza lavoro. Qui, laurearsi significa “sistemarsi”. Poi, dal 2003, con Lula, il governo brasiliano ha intrapreso politiche di straordinario allargamento dell’offerta universitaria (soprattutto nelle università federali): ne sono state create molte, quelle che già esistevano hanno aumentato le loro sedi, il numero delle facoltà e dei corsi di laurea, e il numero di posti disponibili. La crescita è enorme. Naturalmente, a questa crescita segue, parallelamente, l’apertura costante e regolare di concorsi per docenti. Oltre a questi aspetti “quantitativi”, ci sono quelli qualitativi. Qui, si studia, o meglio, si va a lezione, molto di piú. Uno studente di un corso di laurea può passare fino a 40 ore settimanali a lezione o in attività di laboratorio. Poi, a seconda delle situazioni, viene assorbito molto presto (a partire dal secondo anno, in genere) in attività di ricerca o di “iniziazione” alla ricerca, con tutor qualificati. Infine, può, e in alcuni casi deve, partecipare ad attività che si chiamano di “estensione”, ossia sul territorio, in cui “impara e insegna” con le e nelle realtà sociali.

 

In Brasile ci sono sia università pubbliche sia private?

 

Sí. Quelle pubbliche possono essere federali, e sono una sessantina, o “statali”, ossia legate ai 24 stati della federazione. Alcune, pochissime, sono comunali. Poi quelle private sono, purtroppo, una marea. Con pochissime eccezioni, per esempio le università cattoliche alcune delle quali eccellenti, sono pessime, vere e proprie macchinette mangiasoldi. Le università pubbliche, naturalmente, sono integralmente gratuite!

 

Ricordo che nella tua precedente intervista facevi un riferimento piuttosto amaro ai concorsi: ci dici come avvengono in Brasile?

 

Nelle università pubbliche (ora soprattutto in quelle federali, come la mia) sono frequentissimi e, per quel che ne so a partire dalla mia esperienza personale, prima come candidato e poi come comissario, pulitissimi e trasparentissimi. Esce il bando, che dice quanti posti ci sono, per quali facoltà, quali requisiti bisogna avere (titoli, soprattutto), come si svolgerà il concorso, e basta. Se fra i candidati c’è, per esempio, un mio ex studente e io sono in commissione, devo essere sostituito. Tanto per rendere l’idea.

Raccontavi che in Brasile un professore ha un rapporto diverso con gli studenti e con l’università stessa; cioè lasciavi capire che ci fosse un coinvolgimento maggiore, sia in termini di tempo sia di impegno. Puoi entrare più nello specifico?

 

Beh, dipende certamente dallo stile o dal temperamento di ogni docente, ma, in genere, c’è molta piú informalità. Anche perché, qui, la docenza universitaria non è una professione geriatrica, come in Italia. La maggior parte dei miei colleghi hanno fra i 30 e i 45 anni. A sessant’anni o poco piú, qui si va in pensione, età in cui in Italia, temo, si fanno ancora i concorsi. Ma credo che questa “informalità”, che comunque non è assoluta né generale, si deve piú al “carattere nazionale” brasiliano che non a una peculiarità delle università. In certa misura, si riscontra in moltissimi altri settori sociali. Ma qui si può andare a bere una birra con gli studenti, puoi chiamarli a casa tua, o loro ti invitano a cena a casa loro, senza problemi. Ricordo che a Roma questo rapporto c’era, appunto, solo con il mio professore di Letteratura Brasiliana.

 

Il Brasile, pur essendo un paese ancora ricco di contrasti e problemi, ha investito moltissimo nella cultura e nel sistema universitario, dando quindi un segnale chiaro rispetto a ciò che viene considerato importante per il futuro: secondo te un’università che funziona che contributo anche economico può dare ad un paese?

 

Un contributo straordinario, è chiaro! Pensiamo a tutta la problematica energetica: dall’uso dell’etanolo e di altre energie rinnovabili allo sviluppo della produzione petrolifera, anche con le scoperte degli immensi giacimenti nello stato di “pre-sale”, c’è sempre lo zampino della ricerca universitaria. Ma, dal mio punto di vista (sono un antropologo), metto in risalto soprattutto il contributo “culturale”, “identitario”, di cittadinanza, che le scienze umane riescono a dare in termini di coscienza e autocoscienza nazionale.

 

In Italia vi sono alcune università, tipo l’Università Cattolica, che hanno sedi distaccate in cui, praticamente, quasi non ci sono studenti, o almeno non un numero tale da giustificare un corso di laurea, con conseguente dispersione di risorse. Com’è in Brasile l’organizzazione territoriale degli atenei?

 

Come ho detto prima, quasi tutte le università pubbliche hanno sedi distaccate, per coprire meglio il peculiare, e non solo in grandezza, territorio brasiliano. A volte in grandi centri, a volte in paesini che in Italia sarebbero o sembrerebbero minuscoli o “sperduti”. La gestione amministrativa di questo sistema è, spesso, un po’ macchinosa. Ma permette che l’università abbia una presenza molto piú capillare e possa, cosí, contribuire meglio alla crescita del paese.

 

Esistono anche in Brasile i dottorati, i ricercatori? Come vi si accede e, economicamente, come sono retribuiti?

 

Beh i corsi di dottorato esistono in Brasile fin dagli anni Quaranta, mentre in Italia sono nati almeno quarant’anni dopo. Per fare carriera universitaria è praticamente obbligatorio avere il titolo di “Dottore” in qualche cosa (Letteratura, Ingegneria, Storia, Psicologia, Pediatria, ecc. ecc. ecc.). E per avere questo titolo bisogna frequentare e concludere, con una tesi di dottorato, un corso di Dottorato. Io, in Italia sono “dottore” perché mi sono laureato. Questa cosa, qui, è incomprensibile. Uno studente di dottorato, quasi sempre, ha una borsa di studio, di circa 1000 euro al mese. Una cosa che mi preme sottolineare è che un professore universitario che abbia vinto un concorso prima di aver ottenuto il titolo di dottore è praticamente obbligato a, prima o poi, prendersi un “periodo sabbatico” e fare il Dottorato. In questo periodo, di quattro anni, riceve lo stipendio della sua università e la borsa. In Italia, tutti i professori che sono entrati nelle università prima degli anni 80, ossia prima che i Dottorati di ricerca fossero istituiti, baroni o no, certo non si “fermano” per fare un Dottorato. Tanto, sono “dottori” lo stesso. Detto questo, qui non esiste la carriera del “ricercatore”. Si entra in un’università pubblica, per concorso, come “professore” (in quattro categorie o “tappe” di carriera, che dipendono soprattutto dal titolo di ciascuno – Master o Dottorato). Tutti i professori, poi, indipendentemente dalla loro situazione di carriera, sono anche “ricercatori”, cioè hanno il diritto/dovere di svolgere attività di ricerca.

Solitamente quando si pensa a qualche università all’estero la mente va subito alle università americane e inglesi, e forse giustamente. C’è qualche università brasiliana che tu consideri un’eccellenza? E com’è la situazione di studenti che dall’estero vengono a studiare in Brasile, ce ne sono?

 

Se usiamo i criteri abituali, per i miei gusti, un po’ troppo “economicisti” e/o tecnocratici) di “eccellenza”, e se diamo retta a uno dei “ranking” piú prestigiosi (www.topuniversities.com/university-rankings/world-university-rankings/), l’Università di San Paolo (USP è la migliore, piazzandosi al 139º posto. Poi c’è quella di Campinas (UNICAMP, 228ª)), anch’essa dello stato di San Paolo, quella Federale di Rio de Janeiro (UFRJ, 333ª). Bologna è al 194º posto, La Sapienza al 216º, Il Politecnico di Milano al 244º. La classifica è dominata da atenei britannici, americani e canadesi. Ma io non ci credo molto. Sono quasi sicuro che la migliore sia la mia. Scherzi a parte, dipende davvero dai criteri utilizzati per fare queste classifiche. In Brasile sta crescendo a vista d’occio il numero di studenti stranieri. Prima, venivano soprattutto a fare master o dottorato, e soprattutto dall’America Latina o dalle ex colonie portoghesi in Africa. Ora, abbiamo studenti stranieri anche nei corsi di laurea. La mia università, poi, che si chiama “da Integração Latino-Americana” ed é situata in una “triplice frontiera” (Brasile, Paraguay e Argentina, a Foz do Iguaçu – un crocevia anche simbolico del continente) ha, per legge, il 50% dei suoi studenti stranieri, provenienti da altri paesi dell’America Latina. L’UNILA è ufficialmente bilingue. Ma nulla proibisce a un europeo di venire a studiare in Brasile.

 

Università-mondo del lavoro: che tipo di sinergie ci sono in Brasile?

 

Poche o molte, a secondo se si vede il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Io direi che, in alcuni settori, soprattutto in quello dell’ingegneria, c’è molto “scambio”, anche se, però, un po’ assimetrico: molte aziende barsiliane traggono enormi vantaggi dalle conoscenze sviluppate dalle e nelle buone università, e non pagano quasi nulla per questo. Il governo ci incentiva a “trasferire” spesso e volentieri le nostre “scoperte” alle aziende. Per il bene dello sviluppo, della crescita. Pare che funzioni, ma io ho qualche perplessità etica, forse, che però qui non posso esporre. Quel che è sicuro è che il settore privato investe molto meno di quello pubblico in scienza, tecnologia e innovazione. Ma molto molto meno!

 

In Italia, molto spesso, per motivi che sarebbe forse troppo complesso analizzare qui, accade che l’università diventi quasi un parcheggio in attesa di capire cosa fare della propria vita. Quindi è considerevole il numero di studenti che si iscrivono e non arrivano alla laurea o che vanno fuori corso di qualche anno. In Brasile accade lo stesso? È tecnicamente possibile "andare fuori corso" anche lì?

 

Sí, è possibile, ma non tanto come in Italia. Se la durata prevista di un corso è di quattro anni, per esempio, al massimo uno studente può cincischiare per sei anni, non di piú. È forte, piuttosto, il fenomeno dell’”abbandono”, soprattutto nelle facoltà piú tecnologiche. La causa va ricercata nella pessima qualità delle scuole medie e medie superiori, in Brasile, soprattutto nell’insegnamento della matematica. Ma qui il discorso sarebbe lungo, lunghissimo.

 

I professori in Brasile sono sottoposti a qualche forma di valutazione qualitativa del loro lavoro?

 

Continuamente, come è giusto che sia. Siamo obbligati ad avere, ognuno di noi, un curriculum pubblico, in rete (questo è il mio: http://buscatextual.cnpq.br/buscatextual/visualizacv.do?id=K4794163Y2), senza il quale non possiamo fare concorsi, accedere a finanziamenti per la ricerca, niente. Ogni due anni, poi, per poter avere gli scatti di carriera dobbiamo fare rendiconti circostanziati. Ma la pressione della valutazione è soprattutto “psicologica”. Dobbiamo pubblicare, pubblicare pubblicare, forsennatamente, per avere fondi per la ricerca. Se non pubblichi, non “avanzi” nel sistema. Se uno ha letto un po’ di Bourdieu sa di cosa sto parlando.

 

A cura di Geraldine Meyer