Elena: vivere da studente in Giappone

 

 

Giappone: un luogo tanto lontano quanto affascinante e misterioso. Una cultura differente anni luce dalla nostra, un modo di pensare per certi versi opposto, un popolo preciso, frenetico, dedito al lavoro e forzatamente cortese. Un altro mondo….il mondo in cui Elena ha deciso di vivere un’esperienza temporanea. Il desiderio di conoscere la lingua giapponese l’ha convinta ad iscriversi ad una scuola di lingua a Kyoto. Un’esperienza questa altamente formativa che le sta insegnando tanto, permettendole di acquisire maggiore indipendenza.

 

Elena ci racconti cosa ti ha portato in Giappone?

 

Dopo aver studiato giapponese per due anni alla facoltà di Storia e Civiltà Orientali dell’Università di Bologna, le mie capacità di comprensione e comunicazione erano ancora basilari, ma il mio desiderio di conoscere meglio questa lingua era sempre più grande. Ho deciso così di provare a venire qui un anno, iscrivendomi ad una scuola di lingua che mi permettesse di concentrarmi esclusivamente sullo studio del giapponese e allo stesso tempo di essere immersa totalmente nella quotidianità nipponica. Ho scelto di venire a vivere a Kyoto, perché non stravedo per le metropoli e a Tokyo o Osaka mi sarei sentita smarrita. Kyoto invece è un giusto compromesso ed, essendo stata per mille anni la capitale del Paese, ha un patrimonio storico-culturale invidiabile.

 

Perché proprio il Giappone?

 

Questa è una domanda che mi pongo spesso io stessa, senza riuscire mai a darmi una risposta definitiva. Credo di essere stata folgorata dal giapponese intorno ai diciotto anni, dopo aver visto “Kill Bill” di Quentin Tarantino, ma poi il pensiero di iniziare a studiare una lingua così ostica ha lasciato spazio ad altri interessi. Solo dopo qualche anno la curiosità si è ripresentata così forte da farmi prendere la decisione di iscrivermi a un corso di studi, che comprendesse esami di lingua giapponese. Un po’ alla volta ho conosciuto il cinema, la letteratura, l’arte e la cultura del Giappone e ogni scoperta mi dava la voglia di saperne di più, di imparare ancora. La lingua è una vera e propria sfida quotidiana e forse è questo l’aspetto che mi intriga maggiormente e mi impedisce di perdere interesse nello studio che sto intraprendendo.

 

Al tuo arrivo è stato facile trovare casa?

 

Dall’Italia avevo contattato un’agenzia che aiuta gratuitamente i ragazzi intenzionati a trascorrere un periodo in Giappone e grazie a loro ho potuto valutare diverse soluzioni abitative convenienti per gli studenti come me. Dopo aver scelto quella che faceva al caso mio, ho preso accordi col proprietario prima di partire, così da avere già al mio arrivo un posto dove andare. In generale le scuole danno comunque una mano nella ricerca dell’alloggio, che si tratti di dormitorio, permanenza in famiglia, appartamento condiviso o privato e la maggior parte delle persone che conosco, proprio come me all’arrivo sapevano già dove sarebbero andate ad abitare.

 

Hai pianificato tutto prima della partenza?

 

Le questioni più complesse, come appunto la ricerca della casa, ho cercato di sistemarle dall’Italia in modo da evitare ansie inutili nei primi giorni. Ovviamente, per quanto si cerchi di avere il controllo di tutto, non è possibile pianificare nel dettaglio ogni cosa prima di avere messo piede in Giappone. Una volta qui, bisogna ottenere i documenti di identità, stipulare l’assicurazione sanitaria, procurarsi un cellulare e soprattutto imparare ad orientarsi in una nuova città, che per quanto mi riguarda è la parte più difficile di tutte.

 

 

Quali sono le differenze culturali che più ti hanno colpito tra i due Paesi?

 

Si parla tanto dell’efficienza e della qualità dei servizi in Giappone e in effetti tutto funziona perfettamente, grazie a un senso civico e a un rispetto per le cose pubbliche che noi purtroppo ci sogniamo. Inoltre, ovunque si vada in veste di clienti, si è trattati con un riguardo particolare, a tratti addirittura eccessivo per chi non vi sia abituato. È quasi imbarazzante i primi tempi entrare in un negozio e sentire un coro di Irasshaimase (benvenuto), gli inchini e i ringraziamenti ripetuti mi mettevano a disagio e, anche dopo avere vissuto a contatto con questo modo di trattare la clientela per tre mesi, l’effetto rimane un po’ strano.

Forse sono proprio gli inchini la cosa che salta all’occhio maggiormente quando si arriva. I giapponesi non amano il contatto, da questo punto di vista probabilmente sono l’esatto opposto degli italiani. Pur non essendo io stessa una persona “fisica”, da quando sono a Kyoto mi è capitato di sentire, a volte, la mancanza di una pacca sulla spalla o di un abbraccio. Qui le persone quando fanno conoscenza solitamente non si stringono la mano, ma si limitano a un cenno del capo (o un piegamento del busto, a seconda dell’importanza di chi hanno davanti). Sono stata tante volte sul punto di allungare la mano, gesto che mi viene più che naturale durante le presentazioni e di rimanere per un momento interdetta, prima di ricordarmi che in Giappone si usa diversamente.

 

E per quanto riguarda l’istruzione, che differenze hai riscontrato?

 

Il metodo di insegnamento giapponese (e asiatico in generale) si basa molto sulla memorizzazione di nozioni, dando meno importanza del nostro alla comprensione, al confronto di idee, allo sviluppo delle opinioni individuali. Questo a volte può provocare frustrazione, perché per gli occidentali non è facile imparare a memoria determinate parole da un giorno all’altro senza contestualizzarle e la competizione con gli altri studenti asiatici, che spesso sono in grado di ripetere alla perfezione un dialogo che hanno letto solo un paio di volte, è davvero impari. Un altro aspetto che ho notato e può lasciare perplessi è la rigidità dei programmi: ci sono dei tempi da rispettare ad ogni costo e anche se qualcuno rimane indietro non si ripassa quasi mai in classe. Devo ammettere che questo metodo non mi dispiace, trovo sensato che i dubbi vengano chiariti faccia a faccia tra studente e insegnante, senza rallentare anche il resto della classe. L’inconveniente di questo modo di gestire la lezione è che, se per caso ci si sofferma un po’ più del previsto su un argomento, si rischia di coprire solo superficialmente gli altri, dato che c’è un numero prestabilito di pagine da studiare ogni giorno e non si fanno sconti in nessuna occasione.

 

Durante questi mesi di permanenza ti è mai capitato di vivere delle situazioni incresciose a causa di fraintendimenti dovuti alle differenze culturali?

 

Non mi è capitato nulla di particolare a causa di comportamenti errati: per quanto le differenze culturali siano spiccate, seguendo le basilari regole della buona educazione si possono evitare quasi sempre situazioni spiacevoli. Purtroppo succede, come quasi ovunque nel mondo, di essere trattati in modo differente per il solo fatto di essere stranieri. Gli episodi più palesi non sono cosa da tutti i giorni, ma quando mi siedo accanto a qualcuno sull’autobus può succedere che questa persona si scansi o stringa la borsa a sé. Questo atteggiamento mi ferisce, ma cerco di ricordare che si tratta di eccezioni e cose di questo tipo mi sono accadute davvero troppo di rado per potermi sentire discriminata.

 

Come si svolge una tua giornata e cosa ti piace fare durante il tuo tempo libero?

 

Dal lunedì al venerdì ho lezione nel pomeriggio, quindi solitamente di mattina ripasso e mi preparo per i test settimanali, poi vado a scuola e al rientro faccio i compiti, sento il mio ragazzo e la mia famiglia su Skype, mi occupo delle faccende domestiche. Nei fine settimana mi piace fare la turista, visitare la città, che ha davvero tanto da offrire dal punto di vista artistico e culturale e, quando è bel tempo e non ho impegni particolari, prendo il treno e vado in gita in cittadine vicine. Se capitano dei ponti di più di due giorni cerco di approfittarne per viaggiare. A dicembre sono stata a Hiroshima, una città che per ovvie ragioni non è ricca di monumenti storici come Kyoto, ma ha sul visitatore un impatto emotivo molto forte. La sera invece, di venerdì o sabato, ogni tanto esco con gli amici e vado al bar, a cena fuori oppure al karaoke, che qui è un passatempo piuttosto popolare. Anche se normalmente mi vergognerei a cantare in pubblico, tutti lo fanno con grande naturalezza, e dopo un po’ anche io mi sono fatta contagiare e ho imparato a lasciarmi andare, è molto più divertente di quanto pensassi! Le uscite serali cerco comunque di contenerle, per evitare di spendere una fortuna: i divertimenti si pagano cari ed è fin troppo facile prenderci la mano e sperperare un sacco di soldi senza quasi accorgersene.

 

Com’è studiare all’estero, nel tuo caso in Giappone? E’ un’esperienza che consiglieresti a priori?

 

Studiare all’estero in generale è un’esperienza che considero altamente formativa, permette di acquisire maggiore indipendenza e di essere in contatto con persone provenienti da Paesi e culture molto diverse; aiuta tantissimo ad aprire la mente; insegna ad adattarsi anche a situazioni che normalmente eviteremmo; in una parola, fa crescere. Per quanto riguarda il Giappone nello specifico forse no, non lo consiglierei a priori a tutti. Un’esperienza qui non è paragonabile a un periodo in Francia o Germania, nazioni più vicine a noi geograficamente e culturalmente e credo potrebbe risultare stressante per qualcuno che non abbia una forte motivazione o un amore particolare per questo Paese. Tutto dipende però dagli obiettivi che ci si pone: se si viene qui per impegnarsi nello studio, capiteranno di certo giornate nere in cui si perde la fiducia nelle proprie capacità e si è sopraffatti dalla voglia di mandare a monte tutto e tornare a casa. Se invece ci si può permettere un anno sabbatico, i divertimenti non mancano, soprattutto per chi è appassionato a certa pop-culture, da anime e manga all’immaginario fatto di timide studentesse in uniforme e giganteschi robot da combattimento.

 

Come si pone il Giappone nei confronti di uno straniero?

 

Per quanto riguarda i turisti, un viaggio in Giappone è un’esperienza che si può affrontare con grande serenità, senza il timore di trovarsi in difficoltà, anche perché spesso basta qualche minuto davanti a una mappa con espressione smarrita per attirare un qualunque passante, pronto a farsi in quattro per spiegare al viaggiatore come giungere alla propria meta o addirittura ad accompagnarcelo deviando dal proprio percorso originario. Se si vuole vivere qui per un periodo più lungo le cose cambiano un po’. Senza conoscere per nulla la lingua è quasi impossibile sbrigare le questioni burocratiche fondamentali, dal momento che trovare del personale che parli inglese in un qualunque ufficio è un’impresa ardua. L’acquisto di un cellulare o l’apertura di un conto in banca possono richiedere ore di incomprensioni e frustrazione. L’ideale in queste situazioni è avere amici giapponesi disposti a dare una mano o armarsi di santa pazienza e cercare di farsi capire in qualche modo.

 

 

In cosa pensi che ti cambierà questa esperienza?

 

Stare a contatto per un anno con una cultura e un modo di pensare per certi versi opposti a quelli all’interno dei quali sono nata e cresciuta, mi sta facendo rivalutare la mia visione del mondo, aiutandomi a essere meno rigida, più aperta alle idee degli altri, anche quando sono apparentemente inconciliabili con le mie. La capacità di relativizzare tutto, di chiedermi il perché di un atteggiamento prima di giudicarlo e bollarlo come strano o sbagliato, va conquistata e di certo non si ottiene in poche settimane. Ho ancora molto da lavorare su di me da questo punto di vista, ma so per certo che se non fossi venuta qui non mi ci sarei nemmeno avvicinata e anche per questo sono grata al Giappone e alle sue contraddizioni, in grado di suscitare in me continue domande e curiosità.

 

Come e in cosa è cambiata la tua quotidianità da quando vivi in Giappone?

 

Si può dire che sia cambiata praticamente in tutto. Intanto sono tornata tra i banchi di scuola, con compagni di classe, verifiche, insegnanti più o meno amati, sere passate a versare lacrime e sudore sui libri prima degli esami finali. È strano, a quasi ventisette anni, ma anche stimolante. Inoltre ho abbandonato la mia sedentarietà italiana per uno stile di vita in corsa perenne, pieno di scarpinate in lungo e in largo per la città e di gite in cui i piedi macinano venti chilometri al giorno. Parlando di quotidianità devo aggiungere anche una nota dolente: il cibo. Le pietanze giapponesi non mi dispiacciono, ce ne sono alcune che mangio con gusto, ma la mia italianità (e bolognesità) torna prepotentemente a galla quando si parla di pizza, tortellini e mortadella. I miei piatti preferiti sono introvabili qui, oppure hanno prezzi esorbitanti (per la pizza siamo sui 15/20 euro l’una). Se anche volessi prepararmeli da sola dovrei scontrarmi con la mancanza di ingredienti adatti e con la mia micro-cucina, priva di forno e di un piano cottura degno di questo nome.

 

Tra i tuoi amici ci sono più italiani o più giapponesi?

 

Studiando in una scuola di lingua, non ho contatti quotidiani con coetanei giapponesi e per fare amicizia con loro bisogna contare sulle conoscenze comuni. Dopo qualche mese sto riuscendo a frequentare di tanto in tanto gruppi di giapponesi, coi quali cerco di fare pratica per migliorare nella conversazione e per trascorrere delle serate di divertimento genuinamente locale. Per quanto riguarda gli italiani, l’ideale sarebbe frequentarli il meno possibile per non rischiare di parlare sempre nella propria lingua, per questo al momento non ho rapporti stretti con connazionali. Esco spesso con svedesi, dal momento che la scuola ne è piena e sono un gruppo piuttosto unito e divertente, ma in generale mi piacciono le compagnie di nazionalità mista, nelle quali basta cambiare di posto al tavolo per sentire parlare in un’altra lingua.

 

Come sei riuscita a superare l’ostacolo della lingua?

 

A dire la verità non l’ho ancora superato del tutto. Non ho nessun problema a livello quotidiano, riesco a capire e a farmi capire, magari facendo tanti errori, ma sono in grado di cavarmela nei contesti più comuni senza troppa difficoltà. Quando si tratta di chiacchierare con qualcuno, però, vengono a galla i limiti delle mie conoscenze linguistiche e tante volte so cosa vorrei dire, ma non ho idea di come farlo. Mi mancano ancora i termini per esprimere le mie sensazioni, per raccontare una storia, per parlare delle cose che fanno avvicinare le persone e permettono di trovare degli amici. Anche per questo voglio continuare a studiare, perché la parte più interessante deve ancora arrivare.

 

Qual è la cosa più curiosa che ti è capitata?

 

Non lo definirei curioso, ma di certo uno degli episodi maggiormente degni di nota da quando sono qui è accaduto a Hiroshima. Davanti al monumento che commemora le vittime della bomba atomica, un anziano si è avvicinato a me e alle mie amiche e ci ha raccontato che lui era lì al momento dell’esplosione, abitava a settecento metri dall’ipocentro e questo lo rendeva un miracolo vivente. Ci ha raccontato la storia di quei giorni, ci ha portato nei luoghi in cui si possono ancora vedere i segni della bomba e si è assicurato che fotografassimo tutto. Era evidente la sua necessità di farci capire la tragedia che aveva vissuto e il desiderio che portassimo con noi una testimonianza dell’accaduto, perché anche quando non ci saranno più i sopravvissuti a raccontare la storia, questa rimanga impressa nella mente di chi ha visitato la città. La memoria è fondamentale, perché certe atrocità non si ripetano e trovo commovente questo impegno continuo per tenere vivi i ricordi.

 

Ad oggi sei riuscita ad integrarti?

 

Integrarsi in Giappone per uno straniero è difficilissimo, anche le persone che ci vivono da anni, che sono sposate con giapponesi e lavorano in aziende locali, continuano a essere viste come ospiti, e non sempre come ospiti graditi. A maggior ragione non posso certo dirmi integrata io, che vivo a Kyoto da qualche mese e sono consapevole che una permanenza di un anno non mi permetterà mai di esserlo. Non avendo il desiderio di rimanere qui per sempre, comunque, la cosa non mi pesa più di tanto: vivendo così lontana da casa, ho imparato a sentirmi europea e italiana, a rivalutarne i lati positivi e a sfruttarli al meglio in un contesto completamente diverso da quello in cui ho sempre vissuto. Una qualità degli italiani che ai giapponesi di solito manca, per esempio, è la capacità di adattarsi alle situazioni e di cavarsela anche in caso di imprevisti; i giapponesi faticano davanti a un problema inaspettato, se non sanno in che casellina inserire le cose rimangono spaesati e spesso non sanno come muoversi.

 

 

Come si vive in Giappone?

 

Da studenti stranieri si vive bene, si può prendere il bello del Paese e goderselo al massimo, c’è moltissimo da vedere e scoprire, ci sono tanti divertimenti e lo studio è un’attività che si può gestire liberamente per sfruttare il tempo libero nel modo che si preferisce. Le cose cambiano per chi voglia rimanere a tempo indeterminato, trovare un lavoro, mettere su famiglia: lavorare in Giappone è molto stressante, fare gli straordinari è la norma e spesso le ore supplementari vengono pagate solo quando superano le 40 al mese, in pratica si sgobba gratis una settimana in più ogni quattro. I giorni di vacanza sono pochi, quelli di malattia solitamente sono detratti dalle ferie e per quanto gli stipendi siano più alti che in Italia, personalmente non trovo che sia la vita che fa per me. Per quanto riguarda i servizi, qui funzionano benissimo, per alcuni versi sembra un paradiso rispetto all’Italia: i treni sono sempre puntualissimi, le strade sono pulite, le bollette si possono pagare a qualunque ora del giorno nei convenience store, negozi che vendono un po’ di tutto e sono aperti ogni giorno dell’anno ventiquattro ore su ventiquattro, così come alcuni supermercati. Come ogni Paese però anche il Giappone ha le sue zone d’ombra, una è appunto il lavoro. Il problema è così serio che esiste anche una parola, karōshi, che indica la morte da eccesso di lavoro, solitamente per attacco cardiaco dovuto allo stress. Un altro lato negativo che mi salta spesso all’occhio sono gli sprechi del quotidiano. L’utilizzo degli imballaggi è decisamente eccessivo e le bacchette monouso richiedono grandi quantità di legno. Inoltre si fa un uso continuo dell’aria condizionata, usata anche per riscaldare gli ambienti in inverno e accesa spesso a temperature troppo diverse da quelle esterne: nociva per la salute, oltre che per l’ambiente. Per quel che mi riguarda amo molto Kyoto, passerei ore a contemplare la bellezza di alcuni suoi scorci, ma non mi sento di dire che vivrei qui per sempre. È proprio stando qui che mi sono resa conto che il luogo in cui mi sento a casa è la mia città, Bologna, e mi auguro un giorno di poter utilizzare le competenze che sto sviluppando qui per vivere e lavorare in Italia.

 

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A cura di Nicole Cascione